Stephen Shore i maestri difficili, pensieri fra Walker Evans e Robert Frank

Stephen Shore non è un maestro facile, eppure mai nessuno come lui è stato un predestinato… Edward Steichen comprò le sue stampe quando era un ragazzo, nel 1971, a soli 24 anni, fu il secondo fotografo vivente ad avere una retrospettiva al  Metropolitan Museum of Art. A dispetto dal essere uno dei fotografi più conosciuti del pianeta nell’universo dei curatori museali, dei critici di fotografia non è un autore riconosciuto dal grande pubblico, pochi fra i foto amatori ne conoscono il nome e ancora meno riescono a riconoscerne qualche foto. Lontano dal linguaggio stereotipato e retorico del reportage o della pubblicità, la sua poetica non è sempre di facile comprensione, semplicemente poiché l’occhio di molti di noi è ormai abituato alla logica del regime consumistico  urlato cui siamo sottoposti da i bombardamenti quotidiani che abitano le nostre stanze virtuali.
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Molte delle sue immagini dell’America sono il doloroso punto di congiunzione fra i grandi spazi della libertà del West con l’ordinata e disciplinata laboriosa civiltà industriale e borghese dell’Est civilizzato. Sono fratture in cui il paesaggio naturale incontra la città, laddove l’utopia di libertà si infrange nell’incontro con la modernità. La fotografia di Sthephen Shore registra le ferite fatte nel processo di conquista e di appropriazione del West.

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Ma a differenza di chi ha esigenze di “denuncia” foto giornalistica non c’è una vena enfatica od esageratamente critica quanto una volontà di scoperta e di registrazione del reale come a ricondurre tutto ad un processo di comprensione e di accettazione di quello che c’è. C’è il tentativo di liberarsi dai preconcetti, per questo Stephen Shore abbandona il linguaggio retorico tipico del reportage sociale prima e della beat generation poi, per farsi trasportare da una attività estetica di riscoperta, nella accezione primordiale di estetica in cui non era una parte a se stante della Filosofia ma l’aspetto della conoscenza che riguarda l’uso dei sensi (nel caso specifico l’occhio).

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Il senso di unità nel discorso poetico di Stephen Shore è dato dalla luce e dalla possibilità che ha l’ordinario, il comune di diventare straordinario, questo il senso del titolo del suo libro “Uncommon Places” del 1982.

Shore si libera di molti livelli sovrastrutturali dei concettuali (metodologia esplorata nella prima parte della sua carriera) come a suggerirci che la verità è semplice, non facile ma semplice. Mentre Walker Evans poneva nell’inquadratura un oggetto forte che spesso aveva il ruolo di rappresentare l’archetipo in Stephen Shore manca l’oggetto catalizzatore ma in tutte le sue foto permane un alone, una atmosfera, rimarcata con l’uso sapiente della luce. E’ facile capire anche la grande distanza da Robert Frank, ci troviamo di fronte ad immagini più silenziose, meno frenetiche, la fotografia è più neutra meno schierata, l’ego del fotografo non è così invasivo lontano dalla visone romantica bohémien tanto cara all’eroe tragico Beat. L’autore non si impone, non conta l’oggetto singolo ma le relazioni che si vengono a creare, l’inquadratura apparentemente casuale con una leggera tendenza ad abbassare il punto dell’orizzonte danno un senso di  accidentalità e di necessità…


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